Nel mio ricordo di bambino Pelé era già dalle parti di Dio il 21 giugno 1970, sospeso in cielo sopra Burgnich. La sua leggenda era scritta nel nome della città Três Corações (tre cuori) dove il piccolo Edson Arantes do Nascimento venne alla luce per fare il lustrascarpe. Ma il bambino povero un giorno lucidò quelle di cuoio, divenne Re e trasformò la povertà in ricchezza, ogni volta che toccava un pallone.
“E’ stato sempre nero e nessuno si è mai permesso di fare il verso delle scimmie”, scrisse Gianni Mura, che in mezzo a tanta retorica lasciò parole toccanti e autentiche sul più grande che compiva 60 anni. “Non ha mai voluto per umiltà la fascia di capitano” ricordò il compianto giornalista e ai Mondiali più violenti della storia, Inghilterra ’66, gli europei lo costrinsero a abbandonare a suon di botte, l’unico modo di fermarlo. E senza di lui il Brasile non vinse. “La sua gente lo ha chiamato O Rei, il re non è morto, è solo in pensione e non c’è nessuno che ha preso il suo posto, Di Stefano e Maradona gli reggono lo strascico”. Con Messi in tre almeno.
Il re non c’è più. La malattia non gli ha concesso i supplementari, sentivo arrivare la sua fine in questi giorni di fine tutto, ma Pelé ha infilato il contropiede e quando ho appreso da mia madre, mi sono commosso. Come tanti seguivo il suo profilo, in una delle ultime foto che ha postato sorride accanto al padre. Resta un magnifico film in bianco e nero e il primo ciak da cineteca che gli consegnò lo scettro per l’eternità a soli 17 anni, quando firmò due gol capolavoro nella finale in Svezia, dopo averne fatti tre in semifinale.
Immagini lontane e scolorite come se arrivassero da un altro pianeta e “Pelé venía de otro planeta” ha raccontato il ct dell’Argentina mondiale Luis Menotti del calciatore più forte della Storia del Calcio, una leggenda seminata in ogni angolo della terra con gesta sportive, numeri impressionanti (tre Mondiali vinti e 1281 gol). E umanità, con un’eccezione dolorosa, la figlia non riconosciuta e morta di cancro a 42 anni. Morderà la sua coscienza negli ultimi anni, l’unica ingloriosa uscita dal campo.
I suoi piedi segnavano prodigi alla velocità di mezzo secolo dopo, con palloni duri e pesanti come gli avversari, l’elevazione miracolosa lo portava a dare il tu al cielo e le mani, anche quelle sapeva usare, per fare bene il portiere.
Santos o Nazionale, ha bucato tutte le difese sudamericane e europee, gol mai banali e quanti scartando tutti, partite ufficiali e amichevoli, che un tempo erano guerriglie. Nessuno lo ha mai fermato, neanche un Gentile e che sia stato il Trap una volta in Italia-Brasile è falsa leggenda, quel giorno O Rey infortunato scese in campo solo per far guadagnare tutti: con lui la tariffa era 50 mila dollari.
Con lui hanno guadagnato i bambini delle favelas di tutto il mondo, “il più grande successo della mia vita non sono state le coppe o le medaglie, ma sapere di aver aiutato tanti ragazzi di strada che guardandomi hanno capito che lottando si può arrivare ovunque, perché nulla è impossibile se lo vuoi davvero “. Lo voleva il Real, la Juve e quando l’Inter di Moratti strappò un contratto, la sua possibile cessione scatenò in Brasile una rivolta popolare.
Pelé fu bloccato dalla dittatura e dichiarato “tesoro nazionale”, rinunciò a montagne di soldi nella ricca e mediatica Europa e restò fedele alla sua poverissima, amata terra, dove riposerà per sempre.
(Ferruccio)