“Pelé va su benissimo, ma si vede che io salto storto perché sto recuperando la posizione…”. Tarcisio Burgnich non mollava mai, nemmeno il ricordo. Calciatore di altri mondi, rude e umile, tra i più forti difensori di tutti i tempi.
O Rey che da fermo gli sbuca dal cielo e insacca nella finalissima di Mexico ’70 fu la resa al più grande. E il passaporto per l’eternità, dopo aver vinto tutto con l’Inter.
Burgnich se ne è andato a 82 anni, il 26 maggio in un simbolico incastro di giorni: ieri 25 maggio nasceva Gaetano Scirea, domani 27 maggio fa moriva Armando Picchi a soli 36 anni. E fu proprio Picchi a assegnargli il soprannome “Roccia”.
Con l’Italia fu campione d’Europa a Roma nel 1968, vicecampione del mondo nella Nazionale del ’70, forse la più forte della storia con Riva, Rivcera, Mazzola, Facchetti, Boninsegna, Domenghini piegata solo dal Brasile di Pelé. Non passava mai la metà campo e quando lo fece segnò il gol nella partita del secolo contro la Germania 4-3.
Sarti, Burgnich, Facchetti…la Grande Inter come una poesia, da bambino Tarcisio recitava quella del Grande Torino di cui era tifoso, “dopo Superga, in classe piangevo…”.
Friulano, pulito, forte, proprio come una roccia. Riconoscente agli insegnamenti, quelli di Herrera. “Persona perbene, era stato povero e ci esortava a non buttare via i soldi. Multava chi giocava a carte ma era sempre un passo avanti, col suo arrivo è stato come salire su un’astronave, istituì per i giocatori corsi d’inglese e di yoga per concentrarci”.
La vittoria più grande, sul Real Madrid di Puskas e Di Stefano, Inter sul tetto d’Europa a Vienna il 27 maggio 1964. “Abbiamo sconfitto i nostri idoli, le nostre figurine”. Poi arrivò il 1965, l’anno più storico.
Chiuse la formidabile carriera a Napoli dove “mi sono proprio divertito, non c’erano grandissimi nomi, ma eravamo uniti e per un pelo non vincemmo lo scudetto nel ‘75”.
Del Calcio di oggi aveva scarsa stima, delle regole e dei comportamenti. “Come fa un difensore a saltare stando sull’attenti o con le mani dietro la schiena…Riva e Boninsegna segnerebbero 40 gol a campionato”.
L’etica sconosciuta: “Vedo ragazzi che non sai se vanno a giocare a pallone o a una trasmissione di Maria De Filippi…le creste, tatuaggi dappertutto, anellini, orecchini, le scarpe rosse, gialle, lilla, verdi, azzurre..”.
Il catenaccio, una stupidaggine. Nell’Inter di Herrera attaccavano tutti e in’una intervista di qualche anno fa al compianto Gianni Mura disse: “Se io ripenso alla Grande Inter c’erano solo tre difensori puri, ovviamente non conto Facchetti. Povero Giacinto, quante camere abbiamo condiviso. Era una gara a chi parlava di meno. Avevamo tanta roba da leggere, io libri di storia, lui romanzi. Buonanotte Tarci, ‘notte Cipe, alle 22.30 si spegneva la luce”.
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