Quando nell’anno 1999 del Signore iniziai a scrivere a Repubblica, conobbi Mario Gallotti (nella foto accanto al papà Ciro). Tra le sue numerose mansioni “operaie” nella segreteria c’era quella di preparare la stecca dei quotidiani, ma Mario sapeva anche scrivere, meglio di tanti giornalisti di professione.
Ai due figli insegnava che umanità e lealtà vengono prima dei titoli, bastò a diventare amici senza età. Cosi nell’ultimo ottobre del Novecento, sulla nave da Napoli a Palermo, in una notte temperata dal vento mediterraneo e scaldata dal suo liquore di agrumi, mentre il fumo delle sue sigarette ci annebbiava l’oblò, mi raccontò la sua vita.
Andammo al concerto di Guccini e la erre arrotata di Mario vibrava insieme a quella del suo autore preferito mentre cantava “Dio è morto nei campi di sterminio”. L’amicizia, nulla a che vedere con quelle di facciata, è cresciuta quando si spensero le luci e lui andò in pensione a 60 anni, dopo 40 di sacrifici. Fino alla sua morte, il 7 dicembre scorso: leucemia. Era in attesa del trapianto quando mi scrisse mortificato che avrebbe voluto rendere l’ultimo saluto a mio padre, ma quel giorno doveva raccogliere le cellule.
Debilitato, un buon mattino a Portici si recò sulla tomba del suo papà, Ciro Gallotti, gli chiese solo di stargli accanto, quando sarebbe arrivato il suo turno. Era il padre carabiniere di cui anni prima mi rivelò con pudore il dramma che lo aveva segnato, deportato in un lager dai nazisti. Mario non riuscì mai a farsi raccontare tutta la storia, troppo dolore.
L’ha dischiusa pian piano, forse per l’umile timore che non interessasse nessuno solo perché il padre era sopravvissuto, finché due anni fa nel “giorno della memoria” la pubblicò, poche parole per pochi intimi, sul suo diario facebook “aperto caro Ferro – mi disse con il rammarico di non aver trovato uno spazio più nobile – solo per non arrendermi al male”.
Eccola, scritta dalla sua mano e dal suo cuore.
𝟐𝟕 𝐠𝐞𝐧𝐧𝐚𝐢𝐨 𝟐𝟎𝟐𝟏: 𝐋𝐞 𝐦𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐞 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐟𝐢𝐠𝐥𝐢𝐨
Sono trascorsi 76 anni da quando Ciro, mio padre, tornò da un campo di concentramento tedesco in cui fu deportato prigioniero dopo essere stato prelevato nelle vesti di carabiniere da una caserma di Roma il 7 ottobre 1943, una settimana prima che i nazisti deportassero tutti gli ebrei da Roma per caricarli su un carro bestiame per Auschwitz. Mio padre, 23 anni all’epoca, fu destinato, quale militare internato, ai lavori nel lager VIIA di Moosburg, un paesino poco più a nord di Monaco di Baviera.
Dopo la liberazione del campo da parte degli americani nel 1945 tornò a casa dopo migliaia di chilometri, molti dei quali fatti a piedi, inaspettato quasi come Eduardo de Filippo nella commedia “Napoli milionaria”. Ma Ciruzzo, così affettuosamente lo chiamavano, a differenza di Eduardo, non amava parlare di ciò che aveva vissuto e aveva visto durante il suo periodo di prigionia. Un silenzio impenetrabile in cui si intuiva che certe ferite dovevano restare chiuse per non più sanguinare.
Eppure… eppure…un giorno mi rivelò un particolare che lì per lì poteva sembrare insignificante ma poi nel tempo ha assunto un valore tale da poterlo riportare oggi nella Giornata della Memoria. Mi raccontava di un tedesco che, dopo averlo prelevato dalla fabbrica in cui era stato destinato per lavorare, riportandolo nel campo di concentramento spesso gli ripeteva: “Ciro, oggi io con il fucile contro di te, domani tu con il fucile contro di me”.
E mi spiegava che quel “nazista” non era un caso isolato, di quei “nazisti” che avevano capito in quale follia li aveva trascinati Hitler ce n’erano tanti ma che ovviamente non potevano ribellarsi. Del resto, mio padre come tutto il resto del mondo, nulla sapeva cosa era successo durante il periodo di guerra a qualche centinaia di chilometri da lui. Ma una volta venuto a conoscenza di quanto accaduto, sommato alle ingiurie fisiche e morali subite durante la sua prigionia, fece sì che degli eventi di quei giorni non ne parlò mai più.
Unica eccezione, a pochi giorni dalla sua morte nel 1982, a 62 anni, ancora una volta interrogato sui quei tragici giorni rispose solo con una lacrima che gli rigò il viso rivoltato sul cuscino per nascondere con un estremo atto di dignità il suo dolore.
Mario Gallotti